Spero di sbagliarmi ma temo che questo improvviso “allargamento del dicibile” intorno a Gaza non sia una felice epifania della società civile su un anno e mezzo di orrori ma il presagire funesto di catastrofi ancora peggiori.
Non penso a complotti particolari né a episodi particolari di malafede (se non in alcuni casi molto specifici di cui ho sensazione, ma non prove, e quindi mi tengo per me). Mi sembra qualcosa che attiene più all’istinto che alla ragione.
Quello stesso istinto che alla sera del 25 aprile 45 portò più di un italiano ad esperire i propri quindici minuti di sincero antifascismo, perché in fondo anche la paura sa essere autentica, e che se oggi dovessi verbalizzare in qualche modo, più che a un “adesso basta” lo accosterei a un “non credevo, non volevo”. Mi sembra, più che la nascita d’una consapevolezza, il crollo di un’illusione. Una richiesta di salvezza non per i palestinesi, ma per se stessi; inconscia, confusa, ma improcrastinabile. Spero di sbagliarmi, spero che a tanto dicibile allargato corrisponda altrettanto allargato fattibile i cui segni si manifesteranno a breve. Che il muro si rompa senza crollarci addosso.
Eppure, le simmetriche e amplificate isterie reattive, ormai sempre più pavloviane, sembrano rispondere, anche se in maniera non propriamente conscia, allo stesso istinto, alla stessa sensazione di ineluttabilità.
Forse è finito il tempo, forse sono io che ho progressivamente perso le speranze, forse è solo che l’alba e il tramonto hanno gli stessi colori e ci resta ancora un quarto d’ora per capire dove siamo.
E qui è dove siamo:
This is one of the main villages you saw in No Other Land. Today it was destroyed by the Israeli army. https://t.co/Gh0DubagoE
— Yuval Abraham יובל אברהם (@yuval_abraham) May 5, 2025