C’era una volta, in una galassia molto molto vicina, che anzi me sa che era proprio questa, c’era un regno de fantasia che pe’ non urtà la sensibilità de nessuno chiameremo Pirlusconia. Pirlusconia era un piccolo regno feudale col classico governo monocratico ispirato alla sacra triade Dio, Patria, Famiglia; il sovrano però, conoscendo i propri sudditi, aveva preferito declinarla in una versione più concreta e appetibile e cioè soldi, calcio e figa. I soldi, come nuova religione e unico metro del successo, erano misura d’ogni valutazione morale dell’individuo. In questo i pirlusconiani erano un popolo strano: per lo più morti di fame come molti altri popoli, credevano però di potersi arricchire urlando “comunisti merda!”. Saldi in questa fede, continuavano a lavorare per una miseria con la quale compravano abbonamenti tv, assicurazioni, case e altri servizi offerti dal Sovrano Re Cerone Primo, che così si riprendeva così i suoi soldi con gli interessi ed era l’unico ad arricchirsi realmente. Il calcio, o meglio il tifo calcistico per la nazionale, condensava tutto lo spirito patrio del pirlusconiano medio, che biascicava orgoglioso l’inno con cadenza quadriennale per poi il giorno seguente mettersi alla ricerca dei più ingegnosi modi per fottere lo Stato. La figa era invece virtualmente profferta a rete unificate (sempre di proprietà di Re Cerone), affinché le donne ricordassero la loro subalterna posizione di quasi-oggetto e gli uomini permanessero in un indefinito stato desiderante ostacolato dalla propria povertà; povertà che continuavano a combattere urlando “comunisti merda”. La figa non virtuale era appannaggio del sovrano, che vi si dedicava con gran dispendio d’energie, danari, pompette e incarichi di partito, tanto che spesso capacità politica ed erotica tendevano a confondersi. Cerone contribuiva così, per sottrazione d’occasioni, a mantener saldi i sudditi nel sacro vincolo della fedeltà coniugale, come s’addice alla famiglia etero-tradizionale, cornificata solo nei limiti delle proprie capacità economiche in ossequio alla fede nel dio denaro. Nel reame tutto viveva in una calma gioiosa che in realtà della calma aveva solo l’apparenza: i sudditi, che tutti dipendevano dalle emanazioni del sovrano, erano quotidianamente impegnati (dal primo dei vassalli all’ultimo dei servitori) in una guerra fratricida: ognuno affilava il sorriso nell’attesa di pugnalare il proprio superiore e scalare così la piramide dei favoriti, sempre guardandosi le spalle dai tentativi altrui di riservargli lo stesso trattamento. Finché un bel giorno (ma non per i pirlusconiani) il sovrano crepò. E lì, nel lungo lutto mensile proclamato nel regno, le diverse tribù che il sovrano aveva miracolosamente tenuto assieme, esplosero come l’ex-jugoslavia dopo la morte di Tito (proprio quel Tito, non quello della strada, lo dico affinché nessuno faccia confusione). Al margine del funerale solenne, mentre tutti s’affannavano a baciare la mano del vecchio capitano reggente, un orecchio esperto avrebbe saputo già individuare le piccole dissonanze sciolte all’interno del cordoglio gnaulante elargito alla nazione in diretta tv. Già veniva meno la sguaiatezza tipica con cui i pirlusconiani erano soliti rispondere a qualsivoglia critica e s’affacciava invece quel sentimento livoroso e passivo-aggressivo di chi sente minacciata la propria esistenza dagli smottamenti (interni ed esterni) del nido. Così pigola il pirlusconiano che spreme gli occhi a favor di telecamera per mostrare non tanto il dolore quanto la sua capacità di fingersi addolorato, capacità finalmente di nuovo disponibile sul mercato per quanti fossero interessati a noleggiarla. E nel frattempo guarda con diffidenza il pirlusconiano accanto, paonazzo, che urla e vuole il sovrano canonizzato per acclamazione, sperando in un processo osmotico che condoni i suoi peccati attraverso la purificazione del sommo corpo putrescente. Santo lui e santa la sua gente! Un altro, affezionato forse a condoni più terreni, si domanda: Me ne vado adesso o resto fino a quando non saranno liquidate le quote dell’eredità? E questi neoaffliti chi sono? Che vogliono? Perché se molti fremono per lasciare la nave altrettanti sperano di cannibalizzarne il relitto. Attorno, contriti e famelici, s’aggirano gli sciacalli che puntano al patrimonio del sovrano: a chi andrà il suo potere? A chi i soldi? A chi il calcio? A chi la fica? C’è margine per un nuovo sovrano, o anche solo per una quota parte di sudditi? Quale vassallo devo ammazzare? E i feudatari stretti intorno alla bara in difesa del proprio privilegio, li ringraziano per le condoglianze cercando di capire se la morte dei loro pari dara loro maggior potere o aprirà la strada a nemici più potenti, con i quali non sanno ancora se combattere o negoziare. E altri ancora in cerca di traditori, che scovare un traditore è dimostrazione inoppugnabile di fedeltà, anche quando il tradito è morto, qualcuno di sicuro saprà riconoscerla e ricompensarla. Gli eredi sono già saldi sul trono, Nerona e Cerume, la successione non sembra in pericolo. E i successori, come tutti i successori, magnificano la grandezza del sovrano per sottolineare la potenza di chi ha saputo superarlo, cioè loro stessi medesimi, lasciando che i cani e gli sciacalli si contendano gli avanzi di un bottino che hanno già tratto in salvo. Tutti insieme ripetono, a intervalli regolari, il ritualistico “comunisti merda”, affinché il pirlusconiano comune non s’accorga del grand guignol che si consuma attorno al cadavere, e possa così attendere fiducioso l’approssimarsi del giorno in cui sarà ricco. E se trovano uno in silenzio, o peggio ancora che ride di tutto questo circo insensato, subito lo prendono e lo lapidano in piazza e lo offrono in sacrificio alla memoria del sovrano, che sarà finalmente memoria condivisa una volta rimossi tutti quelli che non la condividono.